I "BATTENTI" DI VERBICARO

I “fatti di Verbicaro”

Verbicaro si affacciò alla storia d’Italia con i tristi episodi di rivolta e di sangue avvenuti in seguito all’epidemia di colera che nell’estate del 1911 colpì i suoi cittadini. Una parte della popolazione verbicarese insorse contro le autorità del paese, considerate responsabili della diffusione dell’epidemia mediante una polverina contaminata che si credeva venisse infusa nelle acque della fontana pubblica. Nei tumulti, centinaia d’uomini e donne - anche i detenuti liberati dal carcere - armati di roncole, potatoi, scuri, qualche pugnale e rivoltella, attaccarono il municipio ed uccisero tre persone tra cui l’impiegato municipale addetto al censimento, Agostino Amoroso, che fu trucidato con ferocia. La stampa, in piena Questione meridionale, portò alla ribalta dell’opinione pubblica italiana, per l’ennesima volta le precarie condizioni igieniche e sanitarie del paese e l’emarginazione strutturale in cui versava. Un contingente militare presidiò Verbicaro, per due anni, tra il 1911-13, finché cento cittadini, tra cui un prete, ritenuto il capo dei rivoltosi, furono processati e condannati.

Il presidio militare che si insediò a Verbicaro dopo i cruenti fatti del 1911 dovette far lievitare l’ansia della gente fino a condurla a promuovere risposte sociali a volte espresse anche in forma di protesta rituale, secondo i linguaggi propri delle tradizioni locali. Tensioni ideologiche, politiche e religiose dovettero emergere a “fior di pelle” e manifestarsi in ogni ambito relazionale e sociale, soprattutto nelle cerimonie religiose. Processioni di solidarietà, sollecitazioni alla preghiera, invito alla penitenza ed al pentimento, nella prospettiva di un ecumenico riscatto, dovettero essere organizzate dalla comunità diocesana che vide vacillare persino l’immunità sacerdotale fino a quel momento ritenuta sacra ed inviolabile anche dalla legge civile.
I funzionari civili e gli uomini d’armi che presidiarono Verbicaro provenivano dai paesi del Settentrione, com’era costume amministrativo dell’epoca e strategia politica del governo regio. 

E’ facile quindi immaginare la loro sorpresa e il disorientamento di fronte ad una pratica devozionale così particolare come quella della flagellazione che comunicava attraverso la manipolazione violenta del proprio corpo ed il linguaggio del sangue, spavaldamente ostentato: un linguaggio esplicito nella sua materialità, costruito al “succo della vita”, un’espressione diversa rispetto ai riti di Pasqua che si celebravano ordinariamente nelle altre regioni d’Italia e nei Paesi europei.
Non si trattava di un’ordinata sfilata penitenziale da parte di una confraternita laicale, ma di “battenti anarchici”, flagellanti non organizzati in associazioni costituite, che svolgevano il loro rituale singolarmente o a piccoli gruppi autonomi ed indipendenti, grondanti di sangue e che correvano, quasi all’impazzata, per le vie del paese, con tempi ed andature diversificate ed imprevedibili. Quei battenti, in concomitanza dei “fatti di Verbicaro”, culminati in un bagno di sangue, dovettero assumere una connotazione oltremodo conturbante, incomprensibile e minacciosa, che sicuramente doveva disorientare gli animi dei funzionari e delle istituzioni del neonato Regno d’Italia. Quella cerimonia cruenta dovette apparire come segno di barbarie, d’arretratezza, come l’elemento ideologico misterioso da cui provenivano le atrocità omicide e le superstiziose credenze della violenta protesta verbicarese: la cerimonia doveva essere avversata, soppressa. I funzionari ed i militi dovettero, però, tenere conto di molti fattori: della consistenza numerica della popolazione direttamente coinvolta, composta, oltre che dai protagonisti del rito, anche dai loro familiari, dagli amici e conoscenti; dovettero valutare la solidarietà ideologica di persone legate ai propri codici comunicativi ed alle proprie tradizioni, ma anche della sollecitazione da parte dell’apparato ecclesiastico, in parte ancora favorevole a quel codice devozionale che interpretava ed utilizzava la zelante partecipazione popolare come manifestazione di solidarietà verso la Chiesa, coinvolta nelle violenze con un parroco accusato di essere il capo della rivolta. Negli anni del presidio dell’esercito furono rafforzati i servizi di vigilanza per l’identificazione dei battenti da sottoporre a dissuasione, intimidazioni e minacce, durante e dopo il rito. Cosa che da una parte ravvivò la pratica penitenziale della flagellazione, ma dall’altra motivò un potenziamento liturgico generale, dando risalto anche ad altre cerimonie sacre, in particolare alla Processione dell’Addolorata e dei “misteri”.

I riti di flagellazione

Il rito di flagellazione dei battenti esiste tuttora a Verbicaro (Cosenza). I riti di flagellazione rimandano a riti sacrificali e penitenziali arcaici, che possono essere ricollegati sia a pratiche devozionali per la mortificazione della carne e il temperamento dello spirito, sia alla cultura medica e scientifica della società pre-tecnologica che riteneva il salasso salutare per la rigenerazione del sangue, della virilità e della vitalità fisica, in particolare a primavera. Ma il rito dei battenti di Verbicaro è giunto ai nostri giorni con una semantica rituale ancora intrisa di tensioni e contrasti diffusi, elemento probante dell’inevitabile scontro ideologico che dovettero fronteggiare i protagonisti, le loro famiglie ed i loro amici. L’uso, ad esempio, di un fazzoletto con un angolo calato sugli occhi, come a celare il proprio volto, è indicativo del bisogno di tutelare la propria identità per proteggersi da delazioni insidiose e temibili ritorsioni.

Nei decenni a cavallo tra il XIX e XX secolo, in Calabria, forti tensioni ideali di laicità e scontri politico-religiosi coinvolsero le “liturgie” popolari gestite da associazioni laicali, confraternite e congreghe, ma anche da gruppi e comitati parrocchiali. Le numerose e variegate manifestazioni di penitenza personale cedettero gradatamente il passo a spettacolari “Via Crucis” viventi. La Processione dell’Addolorata e dei misteri fu vista, unanimemente, dallo Stato e dalla Chiesa, come liturgia pasquale da promuovere, cercando però una morfologia rituale verso cui indirizzare il bisogno devozionale dei fedeli che trovava appagamento nella pratica devozionale della flagellazione: per questo vennero arricchiti e valorizzati alcuni ruoli di protagonismo liturgico dei partecipanti al rito.
Solo un decennio prima dei fatti di Verbicaro, S. Venturi, psichiatra e direttore del nosocomio di Girifalco, in un suo scritto del 1901, attesta la persistenza di strane liturgie penitenziali nelle comunità calabresi. 

Il Venturi, descrivendo il panorama della Settimana Santa in Calabria, enumera una serie di riti che avevano inizio il giovedì e vedevano i “battenti” o “San Girolami” che correvano per le vie battendosi i fianchi e le gambe e le braccia, tagliuzzandosi le carni con pezzi di vetro o con le lancette del salasso loro prestate dal barbiere flebotomo; o i cosiddetti inchiovati che, coperti da una veste bianca, andavano in giro con le braccia legate ad una traversa di legno simulando la crocifissione; o anche gli “intenagliati” che andavano in processione scuotendo pesanti tenaglie strette alle carni delle braccia tenute aperte per un maggiore supplizio. Lo scritto descrive, a tinte forti, una sacralità spontanea scarsamente sensibile al dolore fisico che si scatena prima di Pasqua e in cui si esprime la sottigliezza del confine tra sofferenza e “piacere”. Compagnie di disciplinati o di flagellanti erano presenti in molti altri paesi; si ha notizia storica che in Calabria fossero presenti anche a S. Caterina di Guardavalle di Catanzaro, Cropani, S. Gregorio di Gerace, Briatico, Roccella Jonica, Aiello Calabro, Campana, Paterno Calabro; ma questi non sono che alcuni dei centri in cui è stata recuperata una documentazione relativamente ad una loro più recente scomparsa. A Terranova da Sibari il rito è scomparso da alcuni decenni, ma esiste una rarissima documentazione fotografica fatta dal fotografo del posto, A. Manna, negli anni Settanta del secolo scorso, e le istantanee mostrano battenti in atto di flagellarsi sia il petto sia le gambe, mentre indossano una sorta di velo legato intorno alla testa a tutela dell’identità.

La notte del Giovedì Santo

La notte del Giovedì Santo, a Verbicaro, è notte eccezionale; la gente si prepara per la processione della Via Crucis che si snoderà nel dedalo delle antiche viuzze. In prima serata, c’è la Missa in Coena Domini che si svolge nella chiesa principale già ornata di fiori e lavurielli, recipienti con teneri germogli di grano cresciuti al buio, che decorano anche le altre chiese del paese. Vi sono anche ceste di vimini e grosse ciotole ricolme di grano offerto alla parrocchia in segno di devozione al Cristo morto o all’Addolorata. Ognuna delle offerte è ornata con panni neri drappeggiati, nastrini, merletti, fiori e un’immaginetta di Cristo o della Vergine. Nel corso della Messa il sacerdote celebra la lavanda dei piedi con degli uomini detti fratelli, scalzi e in tunica bianca che rappresentano gli Apostoli di Gesù. Dopo la cerimonia, i fedeli, per tutta la notte, andando di chiesa in chiesa, visitano i “sepolcri” e gli altari della “reposizione”. Sembra che la pratica penitenziale della flagellazione, in passato, avesse inizio proprio dopo la liturgia dell’ultima cena; i due riti, però, si percepiscono del tutto distinti e nulla hanno a che vedere i protagonisti dell’uno con quelli dell’altro; segno, forse, che i flagellanti non appartenevano alla congrega dei fratelli che presenziava alla lavanda dei piedi.

Da alcuni anni, a Verbicaro, nella notte del Giovedì Santo, si diffonde una triste canzone accompagnata dal suono di due trombe. Dal luogo denominato “por-ta colpa” (per tua colpa), contrassegnato da alcune croci fissate a terra, dalla Domenica delle Palme, per ogni sera, quindici uomini, alle ore ventidue, per circa un’ora e mezza, intonano sei strofe di un vecchio canto religioso. La vocalità è forte, la concentrazione intensa; il coro scandisce in maniera chiara le parole e i versi rimati in lingua, secondo uno stile poetico che sembra appartenere al XIX secolo; i cantori procedono concentrati e solenni, a declamare la struggente colpevolezza umana per le tante e crudeli pene inflitte al Cristo.
Intanto, in un angolo del centro storico, dentro un “catuvu” o catoijo (cantina-magazzino di deposito), il gruppo dei battenti, rigorosamente uomini, attorniati da pochi amici consumano un rito conviviale comune a base di specialità del posto come agnello, soppressate, salsicce, formaggi e vino rosso. Il gruppo dei flagellanti, lentamente, apre il convivio a conoscenti e, infine, anche a qualche studioso o curioso giunti per l’occasione e con i quali riesce ad instaurare una cordiale ospitalità. Quando si avvicina l’orario stabilito, le 22.00 circa, il gruppo dei battenti si divide in due tra saluti affettuosi ed alcuni si allontanano per prepararsi abattersi in un altro locale.

I battenti rossi

Il rito della flagellazione, anche a Verbicaro ha subito alterne vicende che lo hanno portato quasi all’estinzione negli ultimi anni Sessanta del secolo scorso e poi ad un flebile recupero, nei successivi anni Settanta, grazie ad un giovane deciso a riprendere il rito e ad alcuni ex battenti disposti ad iniziarlo alle conoscenze basilari. Questi hanno incontrato anche il lavoro di uno studioso che ancora oggi, sin dall’inizio, ne sta registrando le problematiche antropologiche; la relazione intensa, amicale e professionale instauratosi tra essi, dopo qualche anno ha diffuso un flebile e parziale credito al rito al quale hanno aderito altri due cittadini. La ripresa della pratica penitenziale ha provocato, sin dall’inizio, qualche attrito con le autorità ecclesiastiche, che hanno ottenuto l’ennesimo intervento dell’arma dei carabinieri per impedire almeno l’ingresso dei flagellanti nelle chiese, come pare facessero in tempi passati.
Negli anni Ottanta, l’interessamento culturale dell’allora sindaco e operatore presso l’Università degli Studi della Calabria ha attenuato le opposizioni ideologiche favorendo una riflessione più moderata. Nel febbraio del 1983, in seguito anche all’ardito ingresso in chiesa da parte di un battente, avvenuto qualche anno prima, il vescovo Lauro scrisse una lettera pastorale che condannava in maniera forte la pratica penitenziale dei battenti e invitava la comunità ad abolire il rito della flagellazione per mezzo della dissuasione. La posizione del vescovo in realtà sortì l’effetto contrario: in quello stesso anno altri giovani verbicaresi aderirono al rito della flagellazione e la partecipazione salì eccezionalmente a ben cinque battenti. Iniziò una faticosa e lenta ripresa del rito, altri giovani si avvicinarono ai flagellanti, poi alcuni abbracciarono la pratica ed i battenti, per oltre un decennio, furono sette, successivamente divisi in due gruppi (quattro e tre), forse per un differente modo svolgere la liturgia. La Chiesa, intanto, promuoveva la processione dell’Addolorata e dei misteri che, nel frattempo, veniva arricchita di altri ruoli anche se, come vedremo più avanti, con strane incongruenze liturgiche.

I battenti di Verbicaro, in questa fase di ripresa, hanno scelto di adottare abiti e accessori di colore rosso. Essi si mettono scalzi, annodano in testa un fazzoletto ricadente con un angolo sugli occhi, indossano una ma­glietta ed un pantaloncino e si preparano per battere a sangue le parti anteriori delle cosce. Un amico strofina loro, con un panno di lana, i muscoli anteriori delle cosce; quando la carne diviene rosea per il fluire del san­gue nei capillari epidermici, i battenti si percuotono col cardillo, uno stretto cilindro di sughero sul quale sono state infisse e saldate, con una co­lata di cera, cinque acuminate punte di vetro. Appena il sangue fluisce e macchia le cosce, i battenti stringono il cardillo tra i denti, abbassano la testa in composta riservatezza e, per proteggere la propria identità, mettono le braccia conserte, poggiate al petto, e in silenzio escono per svolgere tre giri devozionali sullo stesso percorso. Essi si muovono a passo svelto, quasi di corsa, ma si fermano per segnare di sangue i sagrati delle chiese, gli spazi in cui si ha ricordo della passata esistenza di edifici sacri, il calvario posto in cima all’abitato. A volte si battono accovacciati, altre volte in piedi alternando l’appoggio a terra di un piede e il sollevamento dell’altra gamba da percuotere, dando luogo ad una sorta di danza. Nel corso di questo rituale saltellano rapidamente sulle punte e scuotono il muscolo delle cosce per una fuoriuscita più regolare del sangue; soprattutto quando si feriscono, appaiono assenti, assorti in un’intensa aura introspettiva, quasi in trance.

I motivi che spingono a battersi sono sostanzialmente due: il voto per grazia ricevuta ed il legame ad una tradizione familiare e collettiva che intende conservare e tramandare l’eccezionalità delle proprie ragioni ed dei propri codici comunicativi, soprattutto perché fondati sulla violazione del proprio corpo e la manipolazione rituale del proprio sangue. I due gruppi sono coadiuvati da alcuni amici in veste di “spruffaturi” (spruzzatori) che da un orcetto (piccolo otre) colmo di vino, a richiesta dei battenti, ne sor­seggiano un po’ per poi vaporizzarne un pò, energicamente, sulle ferite o sul cardillo al fine di operare un lavaggio disinfettante. Nel 2009, i battenti sono diventati dieci, divisi in due gruppi (sei e quattro) e quindi si può intravedere una decisa tendenza all’incremento.
A rito compiuto, i battenti si recano sotto un portico dove sgorga un’antica fonte, con lavatoio pubblico dall’aspetto medioevale, e si lavano con l’acqua corrente che rinfresca le membra e rallenta l’effusione. Fermato il fluire del sangue si ritirano ancora nel locale dal quale sono usciti per rivestirsi con gli abiti ordinari. Spesso, dopo il rito, si ritrovano ancora in compagnia d’amici e conoscenti per un ulteriore con­vivio che ravviva la volontà di perpetuare la pratica penitenziale e sacralizza ogni incontro amicale; alla fine, però, si recano alla chiesa principale per assistere e partecipare alla liturgia collettiva.

- Testo a cura di Franco Ferlaino, tratto da "Feste e Riti d' Italia", De Luca Editore - Roma, 2009.
- Foto tratte dal web.